Leggere i libri classici
Da molto, troppo tempo, i classici sono stati considerati come un accolta di corvacci, di libracci peccaminosi ed eretici scritti da uomini perversi, buoni solo per gli scaffali ormai polverosi e dimenticati di una biblioteca e per qualche cariatide con una mentalità ottocentesca. Da molti, troppi anni, occhialuti professori dagli occhiali-bicicletta, veri e propri sacerdoti del sapere e custodi supremi della Letteratura, ci coprono di erudizione dalle altezze siderali del loro sapere, e se qualcuno si azzarda a fare una critica, o a manifestare disapprovazione, viene subito trasformato in vittima sacrificale per questi custodi di musei delle cere. La grande letteratura, nelle mani di queste maschere, è una collezione di mummie, un plesso di straducce vuote e malinconiche, una pinacoteca di ritratti di uomini austeri nero-vestiti che se ne stanno appollaiati sulle cornici come dei gufi. Nulla di più mendace! Addentrarsi nei meandri narrativi, è come esplorare una vecchia soffitta, vi si trova di tutto: una macchina da scrivere senza nastro, un blocchetto di vecchi appunti illeggibili, un candelabro polveroso, una vecchia lanterna magica; farsi affascinare è facile, basta scegliere l’oggetto che ci attira di più. Leggere un classico è come ascoltare un grande vecchio che racconta il proprio tempo, la propria gente, il proprio mondo; e non pensiamo che sia necessariamente un borioso retrogrado e sputasentenze, anzi, spesso si ha a che fare con arzilli vecchietti che sebbene abbiano mille e più anni, non hanno perso niente della loro vitalità, del loro umorismo, della loro energia. Se li ascoltiamo con attenzione, scopriremo che, nonostante i secoli che ci dividono, l’umanità non è cambiata più di tanto: i nostri vizi, le nostre virtù, le nostre debolezze, le nostre brutture, le nostre nobiltà sono immutate e probabilmente immutabili. Quante volte leggendo gli strali di Dante contro la politica o la chiesa non ho potuto fare a meno di notare quanto siano rimasti tali quei vizi!
Lo stato d’animo che accompagna tale lettura, non dev’essere di contrizione, di espiazione morale, di penitenza monastica; non si sta indossando il cilicio, né entrando nella confraternita dei flagellanti, né in un severissimo monastero benedettino; anzi, ci si sta apprestando ad ascoltare una storia che ha saputo emozionare decine, se non quando centinaia, o migliaia di generazioni. La poetessa sovietica Izabella Achamdulina scriveva nel 1973: “Chi ha detto che il tempo non possa fermarsi?” Giustissimo. Per un classico il tempo si è fermato, in quanto è un’opera che è entrata a far parte del patrimonio dell’umanità, un evento destinato a influenzare per sempre il pensiero umano postumo.
Prendete in mano due romanzi di dimensioni importanti come Il Conte di Montecristo o I tre moschettieri: ammirate l’immensa e potentissima macchina narrativa; odiate con Dantes chi l’ha gettato in carcere ingiustamente; compagni di ribalderie di D’Artagnan fuggite per le vie di Parigi; assistete ai colloqui fra un Luigi XVII disperato e i suoi notabili, mentre le truppe fedeli a Napoleone avanzano verso Parigi acclamate dalla folla in festa. Aprite un altro dei mattoni per eccellenza, Delitto e Castigo; Dostoevskij vi prenderà per mano e vi guiderà in un giro mozzafiato nella Russia del suo tempo: conoscerete la miseria più disperata; Pietroburgo vi abbaglierà con il suo fascino decadente e malvagio; entrerete nella psiche di un assassino; capirete fino a dove si spinge l’ossessione per un ideale; conoscerete la vera pietà cristiana e il valore del perdono.
Il problema maggiore nel rapporto fra molti di noi e queste opere è il pregiudizio che lega indissolubilmente la definizione “classico” e la “noia”. Colpa di chi? Spesso di un’istruzione che, colpevolmente, presenta alcune fra le maggiori menti che abbiano mai abitato questa Terra, come insipidi campioni dell’accademia, come uomini tristi e falliti, incapaci di fare una risata, di passeggiare con un amico, di amare, di odiare, di far baldoria. Spesso, nell’immaginario comune, sono maschere grottesche, personaggi di carta velina completamente disumanizzati. Come può essere attraente l’opera di un uomo somigliante ad un robot? Gli scrittori devono tornare nella loro dimensione umana, solo a questa condizione potranno nuovamente comunicare qualcosa: le opere non possono essere ridotte a pedanterie tutte contenuto, devono essere prima di tutto fonte di piacere estetico. Credo che la lettura delle pietre miliari della letteratura del mondo sia un rischio che ogni lettore debba correre, perché quelle opere raccontano di come siamo, delle nostre miserie, delle nostre nobiltà insomma, sono l’affresco grandioso di quella bestia strana e a volte meravigliosa che è l’uomo.
Daniele Franzoni
“Vladimir”
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